Liberazione oggi
In questo giorno che fu di Liberazione, condivido alcuni estratti di un articolo tratto dal giornale “Cotignola oggi” (n. 1 dell’aprile 1976) in cui le due giornaliste Italia Settembrini e Velia Chiarini hanno intervistato due Partigiane, una di loro è Maria Taroni, mia nonna materna.
Con questo onoro Lei, il suo Coraggio, tutte le Donne che hanno preso una posizione e fatto sentire la loro voce e agito, e tutti gli Esseri che custodiscono nel loro cuore non soltanto un ideale ma una certezza, un diritto, un valore fondamentale: la Libertà.
Il titolo dell’articolo è “Partigiane della Libertà”
“(…) le donne come tante macchine dovevano fornire figli alla patria, e non erano ritenute in grado di decidere del proprio corpo nemmeno quando, per partorire, occorresse il taglio cesareo. Ce lo conferma la Maria Taroni che nel 1941, in procinto di partorire, aveva necessità del taglio cesareo e non le venne praticato in quanto, per leggi fasciste, occorreva il permesso del marito che in quel momento si trovava in guerra. (…)”
La bambina morì, e questo insulto alla vita e alla dignità accadde per due volte. Mio nonno, Cesare Francesconi, tornò a casa dal fronte e concepirono un altro bambino, poi però venne fatto prigioniero e trasferito in un campo di concentramento. Quando venne l’ora del parto nuovamente non era presente e nuovamente non venne praticato il taglio cesareo. Nel rispetto d’una legge, ingiusta.
Anche il bambino dopo pochi giorni morì per le conseguenze del parto, al quale invece mia nonna riuscì per la seconda volta a sopravvivere. Lei lo sapeva, partì per l’ospedale dicendo “torno al macello“.
A quel punto con due bambini morti e il marito prigioniero sentiva di non aver più nulla da perdere, e il suo grande idealismo e il coraggio di una tigre la mossero.
“(…) le donne soffersero tutto quello che c’era da soffrire: il razionamento del cibo, le file, la lotta per i pasti quotidiani, l’angoscia per i mariti, per i figli, per i fidanzati dispersi sui fronti lontanissimi, sconosciuti: il terrore dei bombardamenti, la fame e la miseria dello sfollamento.
Furono le donne che a questo punto presero in mano le redini delle aziende agricole e veramente ribaltarono i concetti di “femminilità” che 20 anni di dittatura avevano affermato.
Questa nuova situazione fece affiorare una più chiara avversione a ciò che il fascismo aveva generato: il “NO” al fascismo fu gridato con più forza, un “NO” che non nasceva solamente dalla rivolta contro la guerra, la fame e la paura ma che fondava le sue radici nei mille sommessi “no” che le donne avevano saputo dire anche prima, quando la resistenza al fascismo era fatta di rinuncia al lavoro, esilio, umiliazioni, paura per il marito e per il figlio, nascosta dietro un’apparente serenità.
Una testimonianza diretta viene da Maria Taroni che nel 1943, in seguito al richiamo alle armi del marito ordinato dal tenente Rotondi, non esitò ad affrontare il Rotondi stesso e in seguito a vivace diverbio lo schiaffeggiò. Fu chiamata in caserma per firmare una dichiarazione che attestava che simili fatti non si sarebbero più dovuti verificare. La Taroni così si espresse: “Questo non è un fatto politico: dico solo che se non torna mio marito ammazzo Rotondi”. Richiamata e denunciata alla legione di Faenza, fu portata davanti al Console da cui non si lasciò intimorire neppure quando alla fine del colloquio la minacciò con una pistola. (…)”
Il Console le puntò la pistola in volto, Lei rimase con gli occhi negli occhi, poi portò le mani ai lati della propria gola, aprì un po’ di più il colletto della maglia, e gli disse: “Spara a una faccia più pulita della tua”. Lui ripose l’arma nel cassetto spazientito e le disse: “Esci, esci, esci subito di qui”. Ogni volta che ce lo raccontava ripeteva il gesto, che ben conosco, proprio come se fossi stata in quella stanza, e fisicamente sento come il sangue che s’infiamma possa essere tanto freddo quando è giusto che sia.
“(…) il 10 Aprile 45 Cotignola è libera!
Il paese è distrutto, restano solo macerie e un fiume coperto di mine. La maggior parte degli uomini lavora nei campi bruciati dalla guerra, per renderli terreno agricolo. Ritornando alla testimonianza della Maria Taroni ricordiamo che 80 furono le donne organizzate nello sgombero delle macerie, lei ne era il caporale. Le donne con badili caricavano le macerie su carretti, che poi venivano portati dagli uomini: ma erano appunto le donne quelle più esposte ai pericoli di esplosivi che potevano essere tra le rovine. Infatti, la moglie di Ceroni morì calpestando una mina. Finita la guerra anche a Cotignola si formò il Comitato di Liberazione e tra i componenti troviamo una donna: la Maria Taroni. Essa rimane comunque una eccezione. Finita la Resistenza le donne tornarono in casa, risucchiate dalla famiglia dove ripresero il loro posto. Quelle donne che erano state componenti attive della lotta di Liberazione furono le prime ad organizzarsi poi in formazioni politiche o autonome, come l’UDI. Ma questo non giustifica l’esclusione dalla vita sociale, nel dopoguerra, delle donne che soltanto ora, da alcuni anni, ha cominciato a riaffermarsi.”
Mia madre conserva tutte le tessere annuali dell’UDI di mia nonna. Forse lei fu un’eccezione – come afferma la giornalista – perché mio nonno, Cesare Francesconi, restò prigioniero nei campi di concentramento e deportato prima in India, poi in Australia dove restò per quasi due anni ancora dopo la fine della guerra. Tutti le dicevano di rassegnarsi, che doveva considerarsi una vedova e cominciare a pensare di rifarsi una nuova famiglia. Lei rispondeva con veemenza a tutti che il sangue le diceva che suo marito era vivo e che sarebbe tornato a casa. Aveva preparato una scatola con gli abiti da indossare per il ritorno di “Zizaroti”, il soprannome del nonno Cesare. Custodiva un cappotto nero, se fosse tornato d’inverno, e un abito rosso, per accoglierlo se fosse tornato d’estate.
Il nonno tornò all’improvviso, e lei non indossò né l’uno né l’altro.
Spesso accadeva che i compagni di prigionia non avvertissero le famiglie di chi sarebbe stato liberato in seguito, fatico ancora a comprenderne il perché. Oltre ai miei nonni materni ricordo l’esperienza dello zio Guido, che tornò a piedi fuggito dalla Francia, e anche sua madre qualcuno dimenticò di avvisarla: svenne quando si trovò davanti il figlio, reso irriconoscibile dagli anni di guerra, dal campo di concentramento e dall’impresa titanica di attraversare le Alpi a piedi per tornare.
Così un giorno mentre mia nonna tornava a casa dal paese in bicicletta, proprio davanti all’ospedale di Cotignola e ai giardinetti, si trovò davanti il nonno che camminava a piedi, magrissimo, con la valigia di cartone, si rividero, lei lanciò la bicicletta a terra e rimasero abbracciati per un tempo sospeso, un tempo indefinito per cominciare a lenire le loro ferite e tutto il dolore in un abbraccio senza fine. Da quell’abbraccio è nata mia Madre, archetipo dell’Amore… col taglio cesareo.
La medaglia della fotografia è stata consegnata a mia nonna, per il rilascio era previsto che si facesse richiesta in Comune, cosa che naturalmente lei non fece, affermando che tutti sapevano e che non avrebbe di certo chiesto nulla a nessuno.
L’ebbe, e l’ebbe comunque vinta lei una volta di più.
Qualche anno dopo la sua morte la sognai, ero al bancone di un bar affollato, mi avvicinò, ero felice di vederla, mi disse “la medaglia bronzea è tua”, lo ripeté e poi andò via. Al risveglio lo raccontai a mia madre, che cercò la medaglia e me la diede, da allora la custodisco e la porto con me ogni giorno.
Oggi più che mai desidero condividere con tutta la gratitudine e l’Amore che posso, per non dimenticare, per ricordare, per risvegliare quel Fuoco che scorre nelle nostre vene, il sangue indomito che nulla, NULLA, può soffocare e che anzi, da quell’intento è ravvivato.
Alessandra Pizzi
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